Niguarda capofila nella lotta alla leucemia linfatica cronica con nuove terapie fortemente innovative

Il farmaco sperimentale ibrutinib, usato come terapia nel trattamento dei pazienti con leucemia linfatica cronica, si è rivelato un’ottima opzione terapeutica per i pazienti anziani, che spesso presentano quadri clinici complicati da altre patologie e che non possono tollerare i trattamenti standard immuno-chemioterapici. I risultati sono stati presentati al Congresso della Società Americana di Ematologia (ASH) da Alessandra Tedeschi, ematologa dell’Ospedale Niguarda, e si riferiscono ad uno studio internazionale condotto su pazienti con un’età superiore ai 65 anni con diagnosi di leucemia linfatica cronica, non precedentemente trattati. Il nostro Ospedale ha avuto un ruolo determinante nello studio partecipando con il più alto numero di pazienti arruolati.

I risultati hanno dimostrato che l’ibrutinib non solo rivela un miglioramento della sopravvivenza libera da progressione di malattia, ma determina anche un miglioramento della sopravvivenza dei pazienti. Inoltre, il trattamento con ibrutinib è stato ben tollerato con una bassa percentuale di eventi avversi gravi.

La chemioterapia associata all’utilizzo degli anticorpi monoclonali è considerata a tutt’oggi lo standard di trattamento per la leucemia linfatica cronica, ma nei pazienti più anziani- la quota più rilevante dei malati: l’età media alla diagnosi è, infatti, di circa 70 anni- può dare problemi di tollerabilità. Ne consegue che l’atteggiamento terapeutico di fronte ad un paziente anziano spesso consiste in somministrazioni di farmaci che determinano scarsa tossicità ma al tempo stesso risposte non soddisfacenti.

Per questo da alcuni anni la ricerca guarda con interesse ad una nuova classe di principi attivi: le cosiddette “piccole molecole” (di cui ibrutinib fa parte). Queste, a differenza dei chemioterapici non hanno come fine ultimo la distruzione del DNA, ma vanno ad agire selettivamente sui segnali disregolati che a livello delle cellule malate determinano una proliferazione incontrollata. “L’azione è mirata- sottolinea Tedeschi-. Il farmaco va a bloccare principalmente le cellule neoplastiche con solo una modesta interferenza con quelle sane. Al contrario di quanto accade con la chemioterapia, che può portare ad effetti secondari non trascurabili. La chemioterapia infatti esercita un’azione tossica nei confronti delle cellule normali soprattutto quelle che si moltiplicano molto velocemente come le cellule midollari. Ne consegue come effetto collaterale una progressiva diminuzione dei valori delle cellule ematiche e un aumentato rischio di contrarre infezioni. Soprattutto nei pazienti anziani, che hanno una scarsa riserva midollare, sono talora necessarie anche periodiche interruzioni del trattamento”.

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